Lascio i miei occhi arrampicarsi su per le scale di ferro fino a toccare il cielo blu, mentre passeggio nel viale alberato di Edgecombe, tra chi va in bicicletta e chi corre col cane al fianco.
Non sono ancora arrivata alla subway che ho già ricambiato tanti di quei sorrisi e saluti…
Indugio ad ogni blocco prima di attraversare la strada per non perdere neanche una finestra, un cornicione delle case a mattoni rossi di Harlem.
Scendo nei sotterranei caldi della metro e mi abbandono alla frenetica orda di passeggeri che si unisce e si divide sulle scale come un banco di pesci tra i coralli.
Ad ogni stazione mi soffermo ad ascoltare le note dei musicisti, a guardare le pareti vestite di piastrelle, a pensare come il vortice metropolitano mi abbia ingoiato velocemente.
Riemergo all’aria, e mi sento come uno gnomo nel bosco, NY è un gigante, più grande del grande visto finora!
Meravigliata mi guardo attorno e vengo rapita da un’incontenibile sensazione di benessere, quell’appagamento che un’opera d’arte riesce a trasmettere, eh si, per me New York è un’opera d’arte dove elementi contrapposti riescono a convivere in armonia.
Grattacieli avveniristici e palazzi vittoriani si strizzano l’occhio tra le avenue assolate, alberi e semafori ossigenano le strade, scoiattoli e artisti animano le piazze e io, instancabile, continuo il mio girare per accorgermi di quanti scorci suggestivi restano assopiti in attesa di uno sguardo, di una foto che li renda protagonisti.
Nella variegata Union Square mi muovo tra zucche e patate biologiche,tra cartomanti e scacchisti e, proprio come il re sulla scacchiera, studio l’avversario, certa di non poter evitare lo scacco matto, il gigante mi mangerà in due mosse.
Da una panchina, salvatrice dei miei esausti piedi, mi piace perdere il conto del numero impressionante di etnie che mi passa davanti, credo che il mondo intero confluisca qui a New York!
I raggi del sole trafiggono le vetrate dei grattacieli le cui sagome si rincorrono fino a sovrapporsi, un gioco di nuvole riflesse e solo per un attimo incastonate.
La statua della Libertà, simbolo indiscusso di NY e degli Stati Uniti, anche se la vedo da Battery Park, non mi lascia certo indifferente, sarà anche per la baia dell’Hudson che abbraccia Manhattan, ma quello che ho davanti agli occhi lo sento addosso, difficilmente lo potrò dimenticare.
Forte è il rumore dell’acqua che si getta nella vasca, ogni goccia è un urlo straziante prima di cadere nel buco là in fondo e trovare la fine.
La mia mano accarezza i nomi scolpiti nel bronzo, non riesco ad immaginare cosa deve essere stato quell’11 settembre quando tutto fu sommerso di detriti, di polvere, di morte.
I miei pensieri si accoccolano tra i petali della rosa bianca deposta sul nome di colui che oggi avrebbe compiuto gli anni.
Lo scoiattolo mi fissa mentre sgranocchia la sua nocciolina e con uno scatto mi si mette davanti, ritto sulle zampe posteriori, allunga il collo annusando, ma io non ho da offrirgli nulla, eppure resta li immobile a fissarmi con quelle due calamite tonde.
Poi con una spazzolata di coda mi saluta e se ne va.
Un muffin e un cappuccino, rigorosamente in cammino come fanno gli americani… lo ammetto, sono una frana, i piccioni hanno mangiato più muffin di me!
Seminando briciole e seguita dai piccioni, lancio un piede avanti all’altro per arrivare al Brooklyn Bridge Park, un luogo magico, romantico, un luogo da film.
Possente e di una bellezza disarmante, il ponte di Brooklyn si presenta volitivo e, senza preliminari, punta dritto al mio cuore, colpita e affondata.
Potrei restare qui per sempre e, mentre sono immobile sulle gambe, la mia fantasia vola come l’elicottero che mi passa sulla testa.
Frastornata dalle bellezze, cerco qualcosa di brutto da vedere, tanto per risvegliarmi dall’incanto e guarda cosa trovo…l’insegna luminosa di S.Gennaro che protegge i turisti che s’avventurano nel bailamme tricolore di Little Italy.
M’infilo nella ressa tra pizza e babà, tra vetri di Murano e ceramiche di Vietri…
Ma si, preso con lo spirito giusto, alla fine, anche questo quartiere non mi dispiace e mi sento Pinocchio nel paese dei balocchi.
Tranquillità, ecco, ora è ciò di cui ho bisogno e a New York c’è un posticino dove potrei trovarla, magari seduta in riva al lago a guardare le barchine scivolare sull’acqua incontro ai grattacieli.
Lo stupore di un bimbo davanti alle bolle di sapone, le note di un violoncello in sottofondo, la ballerina vestita di rosa ritta sulle punte, essere al Central Park è come essere in un teatro e io, spettatrice, mi godo la meraviglia di questo attimo inaspettato.
Abbracciata dalla bellezza di una natura cosi esplosiva, mi abbandono appagata sul morbido tappeto verde e il mio sguardo accarezza il tronco possente della vetusta quercia fin sulle chiome al vento.
Sogno o son desta?
Faccio un viaggio indietro nel tempo, negli anni ’70 ’60 ’50…in una location come i quartieri di Brooklyn, dove si mescolano il neo classico, il gotico, il moderno.
Passeggio nei viali alberati fiancheggiati da case in mattoncini rossi, sui marciapiedi a piastroni ci sono vecchi mobili e suppellettili.
Ognuno, davanti alla propria abitazione, allestisce una sorta di banchetto, talvolta utilizzando direttamente le scale davanti al portone, per esporre la mercanzia.
Sophia Loren mi sorride dalla copertina di una rivista.
Valigie, abbigliamento e accessori intrisi di speranze e di sogni realizzati nella vecchia America ora è merce preziosa per i collezionisti, disposti a pagare a peso d’oro un pezzo di storia da portare a casa.
E da Brooklyn mi preparo ad assistere al tramonto su Manhattan.
Centinaia di persone arrivano alla spicciolata con cavalletti e fotocamere, cercano l’angolazione giusta, e puntano l’obiettivo sul luccichio che magicamente emerge dalle acque.
Anch’io sono pronta ad impressionare la pellicola della mia vita con un altro prezioso fotogramma.
Cara New York, credevo fosse un’infatuazione la mia, ma più il tempo mi allontana da te, più ti sento vicina.
Silvia Cecchi